Questi giovani ‘veicolo del virus’ che vorrebbero tornare a ballare & a vivere…
Domenica, ora di pranzo. La primavera sembra essere nell’aria ma è ancora inverno. E’ un anno che siamo in pandemia. Sembra tutto fermo. E’ fermo.
Mia moglie si stira i capelli in bagno, io scrivo e ascolto la partita delle 12:30 su DAZN. Stamattina presto sono andato a correre, ho pure suonato un’oretta il piano, sono in pace col mondo. Come tanti italiani, anche in questo periodo di m., riesco comunque a vivere.
Sono in forze, mi sento bene, faccio una vita molto tranquilla e non mi assembro. Ho affrontato da pro la mittica (si lo so, ho messo due T) settimana di Sanremo, il rito televisivo che da sempre unisce l’Italia con la scusa delle canzoni da canticchiare, canzoncine di cui ridere e/o piangere.
A sentire chi Sanremo lo fa, professionisti dello show biz da decenni, gente seria e capace, gente che ci fa divertire e a volte emozionare, sembra che molti di noi, con tutti i problemi che abbiamo, aspettino solo l’eternità dell’appuntamento ligure. La realtà come sappiamo tutti è ben diversa, ma lasciamoglielo credere, sennò poi cadono in depressione. E’ gente con l’ego di artisti e artigiani del video, lasciamoli alle loro certezze.
Perché poi, un po’ di ragione ce l’hanno. La pandemia dovrebbe essere in qualche modo mitigata dalla normalità sanremese, dal suo livello artistico e musicale da sempre sospeso tra pop e trash. Ci mettiamo davanti alla tv, ci sentiamo più bravi a cantare o a suonare di quasi tutti quelli che salgono sul palco, andiamo a dormire e l’Italia va avanti. Si avanti avanti male, d’accordo, ma si va.
Sia chiaro, che gli artisti siano e/o ci sembrino spesso incapaci è uno dei motivi del successo di Sanremo. Capitò anche a Mike Bongiorno: a quasi tutti i suoi spettatori sembrava meno intelligente di loro. Quella su Bongiorno è un’osservazione geniale, purtroppo non mia, ma di un certo Umberto Eco, a cui spesso portavo caffé all’Università di Bologna.
E quindi sì, per noi adulti, per chi ha più o meno trentacinque o cinquant’anni e per tutti coloro che hanno qualche anno in più, per i bambini che ancora stanno bene in famiglia, per chi ha la fortuna di avere ancora un lavoro più o meno stabile, Sanremo va bene. Serve a poco ma serve.
Siamo forti, noi adulti. Guardiamo dritti sul futuro, riusciamo ad andare avanti. Spesso ci aiutiamo con la musica, quella vera, mica Sanremo. Ci gustiamo le nostre playlist su Spotify, spesso piene solo dei pezzi “dei nostri tempi”. Io, solo un po’ originale, a voltre uso Ariete o alcuni trapper: mi metto a suonare una chitarra elettrica che non esiste e saltello. Ho in casa almeno cinque strumenti musicali veri. Ma con quelli non ballo mica.
Lo so che ballo come un idiota. La musica, a chi è adulto, serve soprattutto a tornare per un attimo bambini o ragazzi. Serve a sognare di stare su un palco o sotto un palco, a sudare.
A me serve a sognare di essere al Cocoricò, all’alba, in Piramide, con nessuno in pista, perché erano tutti al Titilla, che lì c’era Ralf. Ero solo con il dj, che era inglese. Ed eravamo veramente solo in due, per una decina di minuti. Ballavamo forte però, come due scemi e ridevamo. Le parole non erano importanti. A gesti, dalla mia parte della console, sono certo di avergli fatto capire che era molto bravo. Chi se ne fotte se erano tutti al Titilla. La maggioranza perde, per me, da sempre.
Ma il Cocoricò è chiuso da ben prima del Covid-19. Che diavolo stanno facendo gli adolescenti, che dovrebbero fare scorta di ricordi? E i ventenni? Non ne parliamo mai, tra noi adulti. I media, che ovviamente ascoltiamo, leggiamo o guardiamo solo tra noi “grandi”, fanno anche peggio: i ragazzi li ignorano da sempre. Non sono il loro pubblico. Se ne stanno tra loro al parchetto o sui social, per cui meglio ignorarli. I ragazzi “fanno notizia” solo quando creano problemi a noi adulti, con i loro assembramenti, le loro depressioni. Ci interessano solo perché “sono il veicolo il virus”.
In fondo che cosa gli chiediamo e solo da un anno, che vuoi che sia, di starsene sul divano. “Mica devono andare in guerra”, si dice. E’ che quando si cresce si tende a dimenticare quanto sia dannamente difficile vivere, tra i 14 e i 25 anni. In quel periodo è tutto è ancora da costruire. E’ quello il momento delle “immense compagnie, in motorino sempre in due” (Pezzali / 883 docet) ed è, ovviamente, il momento della musica. Ma sul divano la musica non c’è. Ci sono solo i genitori che rompono e lo splendido telefonino.
A chi come me ha già passato tante notti al Cocoricò, basta il ricordo dell’alba sotto la Piramide, con la cassa che non suona nelle orecchie. Suona nello stomaco. A chi, come me, ha già vissuto il concertone di Vasco nel 1990, con il mio amico Willy che stava svenendo disidratato, basta chiudere gli occhi e sentirsi ancora lì. Mi ricordo tutto, anche il tassista che millantava di averci portato sotto casa di Vasco dopo il concerto; il cambio treno a Bologna per tornare a Firenze, alle 4 di mattina… siamo eterni, io e Willy, anche perché qualcuno dice che nel DVD del concerto ci siamo pure noi, nel mezzo del casino delle prime file.
Ma chi queste emozioni deve ancora viverle, come fa? Cosa fa? Chi tra i ragazzi sta cercando lavoro durante l’Università o dopo le superiori, come fa a riempire di musica e ritmo e amici il perioodo più difficile, il più importante della sua vita? So che non è stato, non è e non sarà per niente facile. Perché le guerre a un certo punto finiscon e si combattono insieme. Questa pandemia è invece quasi niente per troppi e un peso immenso per alcuni.
Questo schifo di pandemia, non ci ha unito. Ci ha ha diviso. Ha diviso giovani e vecchi. Garantiti e disperati. Lavoratori “essenziali” e coglionazzi. Studenti che devono solo ringraziare perché non sono “sotto le bombe” e anziani a casa e/o a bere l’aperitivo tranquilli sotto casa.
Si dirà che non c’è soluzione, per i ragazzi, quelli più in difficoltà. Che tutti in paesi del mondo non si fanno concerti, che dappertutto le discoteche sono chiuse e dappertutto non si sa quando potremo tornare alla “nornalità”.
In realtà è vero il contrario. L’Italia è il paese che ha chiuso le scuole più a lungo e nelle scuole vanno i ragazzi. E quasi solo in Italia di ritorno ai concerti e al ballo non si parla affatto.
Perché parlare dei problemi è molto importante. E’ iniziare a risolverli. Abbiamo, noi bravi & buoni adulti rimosso la faccenda ragazzi. Tanto sono una generazione tranquilla, bella serena con i suoi telefonini accesi h24. Riusciamo a gestirli bene, no?
Proprio in queste ore Nameless, il festival che si tiene ogni anno a Lecco, ha deciso di posticipare l’evento a settembre 2021. Soprattutto, ha presentato un protocollo molto interessante, con tampone per tutti i partecipanti.
Si parla di questa cosa sui grandi giornali? Assolutamente no. Lo si fa solo sui media di settore (DJ Mag Italia, Soundwall, qui, etc) e sulla stampa locale.
Perché in fondo, questi maledetti giovani, che diavolo vogliono? Vogliono vivere? Ma che tacciano.
Fuori dal nostro paese, di musica e di ballo si parla già, da mesi. In Gran Bretagna c’è già una data precisa per concerti e ballo: il 21 giugno. Non solo. C’è un protocollo addirittura per poter riaprire anche i locali al chiuso. E non solo perché ci sono più vaccini.
Negli USA i grandi tour e i festival sono ovviamente sospesi, ma si balla tra drive in e locali, ad esempio a Miami (dove si esibisce anche l’italiano Marco Carola, al Club Space). A New York (amministrazione democratica) i club ripartono all’inizio di aprile con il 33% di capienza.
Solo in Italia la discoteca (che come si sa è ancora peggio del festival) da banale simbolo del divertimento più becero e/o cafone e/o ameno che era per i più (…), è diventata l’unico e assoluto luogo del male.
Altrove non accade. Anche a Berlino le disco sono chiuse. Ma hanno ricevuto notevoli ristori, spesso solo per aprire organizzando mostre d’arte. E là si parla di tornare a ballare nel 2021 ed alla nornalità nel 2022.
E cosa è già successo in Olanda? Tutti davanti alla tv a vedere il Sanremo olandese, grandi e piccini all’inizio di marzo? No. Sabato 6 marzo, allo Ziggo Dome di Amsterdam, un’arena da 17.000 persone hanno ballato solo 1500 persone. E’ un evento di prova per capire come poter ripartire.
Non è un caso che questo evento pilota sia avvenuto in Olanda. E’ forse la nazione più dance ed elettronica al mondo. Ho avuto la fortuna di ballare più volte il top dj olandese Tiesto là, a casa sua: il suo pubblico è quello di Vasco in Italia, ovvero ballano intere famiglie. Il papà va a prendere le birre per tutti al bar, la famiglia balla insieme sul dancefloor / prato. Tra l’altro, il volume della musica è basso, controllato (non come qui, in Italia, dove ogni locali setta i suoi standard e viaggiamo belli diretti verso la sordità collettiva).
Come ho imparato all’Università, a Bologna, tra un caffé e l’altro che portavo a Umberto Eco, la musica da ballo ha una funzione sociale molto importante. Non ci sono solo gli eterni Bach, Mozart e Keith Jarrett, per fortuna. E’ fondamentale anche la musica d’uso, ovvero quella che vive chi partecipa ad una Messa, ad un funerale, ad un matrimonio, a una cerimonia importante, a un piffero di after party. La Champions di calcio sarebbe altrettanto bella senza il suo inno? E perché quei matti degli ultras alla partita cantano, invece di poltrire in tv come noi adulti, sempre santi & buoni?
La dance che ballavamo nei locali e quella che spero i ragazzi torneranno a ballare presto sulla spiaggia, di notte, all’alba, tutti belli colorati e tolleranti (di notte o dopo una notte brava, insieme, è naturale esserlo) forse non durerà Nona di Beethoven. Ma serve come colonna sonora, da carburante, da collante (…) per amicizie e amori che poi durano una vita. Perché si cresce anche ballando.
Lorenzo Tiezzi x AllaDiscoteca