Rave, pochi. Dj set mediocri, troppi. Riccardo Sada nel suo Sada Says ci fa come sempre sognare. E scrive bello chiaro.
Luci stroboscopiche, bassi potenti, un magazzino o un campo e centinaia, un migliaio di persone inzuppate di sudore che ballano per tutta la notte. I rave evocano immediatamente precise immagini. La pandemia ha riesumato una realtà mai scomparsa e non ha impedito che alcuni rave illegali si svolgessero in tutta Europa, isole comprese, nonostante gli avvertimenti delle istituzione. Per la legge britannica, un rave illegale è quando venti o più persone si “raccolgono sulla… terraferma (…) all’aria aperta” con musica “che include suoni interamente o prevalentemente caratterizzati dall’emissione di una successione di battiti ripetitivi” a un livello in cui è abbastanza forte da causare “gravi disagi agli abitanti della località”. Minchia.
Però non ci siamo mai chiesti perché i rave siano diventati illegali.
Negli anni ’80, quando l’acid house arrivò dall’America, un nuovo movimento culturale si diffuse in tutto il Regno Unito. All’inizio degli anni ’90, questi techno raduni erano eventi enormi, con migliaia di persone. Man mano che diventavano più popolari, allora nacquero le preoccupazioni: per il comportamento antisociale; per l’uso costante delle droghe; per la pressione pesante delle forze dell’ordine impegnate a far rispettare le nuove leggi che creava tensione. Nel 1990 il Regno Unito approvò l’Entertainment Act, multe fino a 20mila pound a chi ospitava e organizzava rave o comunque feste illegali. Gli organizzatori ai tempi aggirarono le leggi trasmettendo i dettagli degli eventi all’ultimo minuto su stazioni radio pirata e con dei rapidi passaparola fatti di fax, volantini fotocopiati e in alcuni casi ciclostilati e messaggi lasciati in modo automatico su segreterie telefoniche. La festa che ha cambiato tutto ha avuto luogo a Castlemorton Common nel Worcestershire nel 1992. Era hardcore pura.
Quello che doveva essere un piccolo evento gratuito per i hipster e traveller è passato invece alla storia come il più grande rave illegale mai tenuto nel Regno Unito. Che ha portato a un processo costato quattro milioni di sterline e l’approvazione del Criminal Justice and Public Order Act. La polizia in questo modo ha assunto il potere di fermare ogni tipo di veicolo entro otto chilometri da una manifestazione ed eventualmente allontanarli. Era libertà, questa. Era.
Rave, pochi… nell’Italia di oggi. Ma come è andata la loro storia in UK? Riccardo Sada continua a raccontarcelo.
Il Criminal Justice and Public Order Act includeva anche regole mirate agli assembramenti di oltre cento persone che ascoltavano musica di notte e questa cosa ci fa tornare alla memoria i distanziamenti sociali. Dopo che le leggi sono cambiate, i rave illegali sono pian piano scomparsi sino a farsi risentire in mondo enfatico durante la pandemia. I rave moderni sono oggi più legati alla scena alternativa, punk, sovversiva, anarchica e di rottura.
Siamo anni luce dalla Summers Of Love di fine anni ’80. Siamo lontani dai rave di Lory D. L’aria alternativa si è dissolta nell’aria e l’atmosfera da moti carbonari è scomparsa perché oggi si filma tutto, si comunica e si condividono emozioni attraverso i social e il laboratorio è assurto a mainstream.
Con l’infodemia al collasso e il sottoscritto che non ricorda, nemmeno dopo qualche giorno, se ha partecipato a un dj set di Derek B al Palalido (non c’è più) o se stava twerkando i groove di Anitta ad Assago o era accaldato e sofferente allo stage Temple al Festival Neversea in Romania, è un gran casino rendere memorabile un rave nel cervello.
Rave pochi. Ma quanti dj set. Tanti o troppi.
Ce ne sono per ogni tasca e ogni timpano, ora. Mischioni subatomici che miscelano trap a tech-house, “Do It to It” di Acraze a lambade, dj sessantenni che provano a saltare sullo stage e dj ventenni che si vestono di nero perché fa techno e molto adulto. Come siamo finiti qui partendo dai rave? Boh. E comunque, i rave sono sempre pochi e i dj set mediocri troppi. Che peccato. Il sentito dire di trent’anni fa ora sono pixel osservabili su TikTok e flussi ingabbiabili da Shazam, così non chiedete più i titoli dei brani e rompete i coglioni in consolle solo in inverno quando dovete parcheggiare il giubbotto.
Se al Pigneto scoppia una rissa, o se c’è qualcuno che suona un tamburello davanti al Mambo mirando il tramonto ibizenco, nel giro di pochi minuti ci sono 15 dirette, 7 status di estasiati, 25 di assenti indignati, 5 racconti in prima persona e 2 blog travestiti da quotidiani online che ne danno la notizia. Addio magia. E addio atmosfera di unicità dei rave (ecco il perché del pistolotto di apertura).
Prima, sì, era solo un sentito dire. E se non c’era spazio per il trafiletto nella stampa del giorno dopo, finiva tutto in archivio. Ciaone non esisteva: c’era il silenzio.
La polvere rimaneva invisibile sotto i tappeti, adesso la vediamo persino in realtà aumentata nel preciso istante in cui viene nascosta. Il che comporta una spirale di maleducazione e di edonismo estetico della tracotanza: io, giovanissimo, protetto dalla genericità del mio fottuto gruppo che spesso risiede presso lo spelacchiato parchetto in periferia, mentre mi scambio l’auricolare con l’amico del cuore, metto online la mia experience. Oppure, se finisco protagonista di un fatto di cronaca, mi gaso. O ancora, io tranquillo residente condividendo la mia goduria facendomi travolgere dell’ennesimo carico informativo. Che gran casino raccontarvi che il mondo è un gran casino. E che mentre vale tutto, e che i mari sono più caldi del mio idromassaggio, ti rendi conto che il pacato, il compíto e l’educato sono il nuovo e lo strano.
Riccardo Sada per AllaDisco