(…) effetto nostalgia (canaglia) (…) Riccardo Sada questa settimana in Sada Says ci porta con sé in un viaggio niente affatto nostalgico, un racconto che separa la produzione musicale attuale, così levigata e perfetta, dalla semplicità sgarrupata (ma pure molto creativa) degli anni ’80. Vi anticipiamo solo una frase che vale parecchio: “Ogni volta che un dj contestualizza un disco vecchio in un dj set nuovo, è fragore…”. Buona lettura!
Se sono a un festival o in una discoteca, la gente mi guarda e non perché sono bello: perché sono avanti con l’età. Classe 1968, non ho ottant’anni. Però più passa il tempo e più mi accorgo del divario che c’è con quelli che frequentano gli appuntamenti di una musica che piace solo a me o a pochi altri.
Non è la trap, non è la techno, può essere della leggerissima pop dance o della progressive house sognante o ancora meglio della trance lontana dall’uplifting. I post adolescenti di oggi sono quelli che se ne fregano di tutto. Quando la stampa radical chic si occupa di loro tutela subito la colonna sonora che li accompagna ammonendo che ogni generazione borbotta e critica le scelte e le selezioni musicali di quella che verrà. Sarà.
Ma che mi frega? A me le bordate di autotune su sudate basi trapicali fatte (magari) con lo stampino e figlie di beatmaker senza patente fanno schifo, non è che mi rendano indifferente: proprio mi fanno schifo.
Perché vedo nella musica un’opportunità di ricerca e sperimentazione e qui di stranezze e idee rivoluzionalmusicali non c’è nemmeno l’ombra. Punti di… svista.
effetto nostalgia (canaglia), molto personale. Per fortuna…
Sada Says è il mio e quindi sottolineo questa nullità vomitata dagli attuali sottoventenni. Ero anch’io così a quella età, avevo una musica che non piaceva ai più grandi. Mia mamma ascoltava Joan Baez, gli Inti Illimani, la Nannini e Guccini, mio padre Drupi, Gaber, Mia Martini e la Bertè.
A vent’anni andavo a comprare i primi dischi house e acid house, alla Fiera di Sinigaglia acquistavo le cassettine che arrivavano dalle discoteche più avanguardiste. Che bella e onesta era la techno prima che arrivassero gli anni Novanta che conosciamo tutti. Avrei voluto fare il dj solo per entrare a piedi uniti nel mondo della musica elettronica. Mi sono iscritto a un corso di pianoforte al CPM perché le mie richieste al Conservatorio suonavano strampalate, soprattutto quando rivelavo che i miei compositori preferiti erano i Tangerine Dream, i Kraftwerk e Jean-Michel Jarre.
Non ho fatto il dj, ero pigro e non volevo mettere i dischi a tempo. Trovai invece un socio fuori come un melone che mi introdusse nel mondo delle produzioni musicali con la scusa di investire in tracce che sarebbero state pubblicate solo in Giappone o nel circuito gay.
I primi singoli furono di genere high energy. Che emozione vedere pubblicato un proprio disco, con il tuo nome su centrino e sul retro di copertina. Iniziando presto a fare il giornalista (mi occupavo di sport) ho cercato anche una via che mi portasse in ambito musicale, soprattutto presentando un prezioso biglietto da visita, un mio libro che raccontasse non di me bensì di quel mondo di cui nessuno parlava mai: la musica dance elettronica.
Tutto questo per dire cosa?
Che è bello ogni tanto, dopo diverse corse, fermarsi. A guardare indietro.
Ci si sente un po’ come dei Siddharta. Poi, dipende anche dall’età e dal carattere, viene fuori un briciolo di nostalgia dei bei tempi, anche di quelli in cui si andava a ballare la pop. Nostalgia canaglia. Erano i tempi dei Paninari, a Milano. Jeans Stone Island, Timberland usurate ai piedi, un piumino Moncler che smanicavi quando faceva caldo e che lasciavi al guardaroba quando entravi in club come il Linea di Piazzetta Giordano o al Merry Go Round di via San Pietro all’Orto.
Che emozioni, prima al pomeriggio da teenager e poi la sera da Gallo di Dio. Quella musica era ben diversa da quella odierna, molto più ricca di special, arrangiamenti, di parti, non ridotta all’osso temporale dal sistema, ne parlavo di questa cosa con l’amico caro Zangy (produttore hip hop di assoluto rilievo, come leggi in un articolo di Sada su DJ Mag Italia). Da un brano di allora oggi ce ne tireresti fuori almeno tre. Lo Zangy, lui, guru delle produzioni pop contemporanee, è ancora d’accordo.
C’era nell’aria, ai tempi, un vago senso di libertà, era il momento dell’edonismo reaganiano, del benessere per tutti, dei primi fast food, del Drive In in tivù, del cubo di Rubik e del frivolo involontario. Ero campione mondiale di scherzi telefonici.
Ma il tempo passa e siamo cambiati tutti. Siamo condannati a vivere nell’ombra minacciosa della nostalgia, della corsa morale dell’indietro nel tempo. Come un costante promemoria che emerge tutte le volte che le cose non vanno bene (al giorno d’oggi).
Quando mi sono invaghito di Frankie Knuckles, Todd Terry e della house di Chicago però non mi sono dimenticato del pieno degli anni Ottanta, li ho messi tutti nel mio speciale frullatore, pensando a quali artisti potessero aver davvero traghettato dalla prima alla seconda decade. In radio sicuramente Jovanotti, che passava tutto quello che le altre radio non passavano: i M|A|R|R|S e le Wee Papa Girls Rappers, Rhythim Is Rhythim o i Whodiny, gli EPMD o Bomb The Bass, poi però Lorenzo piano piano è diventato quello delle Tasche Piene di Sassi e ha iniziato a interessarmi meno.
Il pericolo più grande con questo attuale senso pervadente di sguazzare nel passato, e con l’ossessione che ne deriva per il revivalismo, è di rischiare di perdere il momento contemporaneo. Poi guardo tra le email e le cartoline elettroniche della promo pool e le playlist che la gente prova a farti sorbire e mi tranquillizzo. Non mi sto perdendo niente.
Quando via WhatsApp ti dicono che è bello l’ultimo lavoro di Kavinsky, ci credo, clicco play ma mi accorgo ancora una volta di essere caduto nel tranello della finta novità, perché quel suono c’era già, solo che te lo ripropinano. Piacevole, per carità, ma nuovo solo per chi l’ha fatto o chi è nato dopo il Duemila. Gli imperi sonori sono sempre sorti e caduti ma c’è qualcosa che bisogna considerare: che ci stiamo avvicinando al punto di saturazione.
Non è colpa di Internet, la Rete è solo uno strumento, qui c’è stato solo un imbarbarimento della società e l’impoverimento culturale è stato causato dalla troppa offerta che ha azzerato tutto, piallato il settore dell’intrattenimento e dato in mano attrezzi a manovali senza esperienza, amore, talento e vocazione. Aggiungici una spruzzata di pandemia e…
Così facciamo finta di eccitarci dell’hip-hop revival, della IDM revival, della Disco revival, della house revival e soprattutto della techno revival. Ogni volta che un dj contestualizza un disco vecchio in un dj set nuovo, è fragore. Perché è come fare la mescita di un Sassicaia a un banchetto dove i presenti stanno trangugiando dei Big Mac. Come adoro le metafore musiculinarie.
Non siamo solo intrappolati nella trap. Peggio, anzi, meglio, siamo dei Dottor Strange nel Multiverso della follia: siamo in un perpetuo stato di incosciente revivalismo.
Avete tutti ragione. Anch’io. Solo che abbiamo dimenticato la direzione e non ci sono più lettori motivati da Hermann Hesse o interessati da cose pop, se uno vuole considerare Simon Reynolds un viaggiatore proveniente dalla underground. Guardate il suo libro “Retromania”, è stato una appassionata e dichiarata esplorazione dell’ossessione della cultura pop del passato. Guardate oggi i dj che inseriscono una bassline Tb-303 nelle loro tracce, vengono idolatrati.
Eppure stanno facendo qualcosa che è stato già fatto, come Kavinsky, solo che facendolo oggi sono percepiti perfettamente dalle generazioni odierne, quelle dall’ormone impazzito e sul pezzo quando si tratta di brani musicali. Questa pratica potrebbe essere applicata a tutti i comparti. Un calciatore potrebbe iniziare a calciare i rigori da fermo come Beppe Signori, uno chef fare una salsa come Escoffier e un architetto progettare una casa con sabbia di battigia. Ruberebbero dal passato e verrebbero sommersi da applausi.
Che scema ‘sta scena, che sbadato è il pubblico. Il suo atteggiamento è giusto, è in linea con tutto perché totalmente immerso nel presente. Perà non conosce memoria e la sua storia ignora l’iter della tradizione, le radici, l’etimo. Siamo o non siamo nell’era di Alexa dimmi la capitale dello Yemen? Siamo, ad altissimo rischio, in uno spazio senza rischi. Perché rivendicare e rimembrare il passato? Perché il presente è un passato rimasticato e ingurgitato facilmente perché somatizzato, moralmente assorbito. Soprattutto, cosa ricorderemo dell’odierno?
Riccardo Sada per Sada Says