Le major non sono dei bancomat Sada Says 29 04 25

Le major non sono dei bancomat, dice Riccardo Sada. E ci spiega perché…

L’industria musicale si trova in un punto di svolta critico dove l’intelligenza artificiale e l’automazione stanno trasformando radicalmente i processi produttivi tradizionali. Cambia e si accorcia la filiera. Gli strumenti AI di musica generativa non solo sostituiranno gran parte della musica commerciale ma rivoluzioneranno l’intero workflow creativo.

Le major non sono dei bancomat

Le multinazionali dal canto loro manterranno e probabilmente rafforzeranno il loro controllo sul mercato attraverso l’acquisizione strategica di tecnologie emergenti e il consolidamento dei canali distributivi. Questo porterà a una ulteriore contrazione del settore indipendente: con la sopravvivenza solo di strutture estremamente efficienti o sufficientemente grandi da competere. La monetizzazione si sposterà verso modelli ibridi che integreranno lo streaming tradizionale con sistemi blockchain, NFT e micro-transazioni dirette fan-artista. Gli artisti dovranno necessariamente evolversi in imprenditori digitali, gestendo personalmente community, presenza social e strategie di marketing nel metaverso.

Le competenze tecniche diventeranno fondamentali quanto quelle artistiche. Solo chi riuscirà ad adattarsi rapidamente a questo nuovo ecosistema, diversificando le fonti di reddito e abbracciando l’innovazione tecnologica, potrà sopravvivere.

Il successo non dipenderà più principalmente dal talento musicale ma dalla capacità di navigare efficacemente questo complesso panorama digitale, costruendo relazioni dirette con i fan attraverso molteplici canali e formati di contenuto. Le strutture tradizionali come studi di registrazione e servizi di mastering dovranno reinventarsi, offrendo valore aggiunto attraverso l’expertise umana in combinazione con le nuove tecnologie. La chiave sarà trovare il giusto equilibrio tra automazione e tocco personale, tra scalabilità tecnologica e autenticità artistica.

Con le major si lavora solo se si è disposti a farlo alle loro condizioni, giustamente. È un business, ci sono degli accordi molto meno elastici di quelli che si trovano tra gli indipendenti. È tutela. Tuttavia, gran parte del lavoro resta a carico dell’artista o della struttura che lo supporta. Le major, in molti casi, si limitano a mettere una metaforica ciliegina sulla torta, riservandosi di identificare lo spessore delle fette di questa. Non è sufficiente avere in mano un prodotto di alto livello, magari anche internazionale: per loro contano soltanto i numeri. E, anche se li hai, non è detto che investano risorse finanziarie significative.

Le major non sono dei bancomat, ma problema principale rimane la monetizzazione della musica.

A parte l’interesse verso artisti già ben avviati, il lavoro operativo e strategico lo fa quasi esclusivamente l’artista. Basta osservare il mercato: quante nuove produzioni emergono dalle major ogni anno? Pochissime, e sono sempre gli stessi artisti a dominare la scena. L’ingresso è riservato solo a chi ha numeri consistenti, ma, a quel punto, perché avresti bisogno di una major? Certo, le major possono fungere da Bancomat per anticipi, tuttavia il rischio è che, una volta terminati quei fondi, non ci sia alcun reale ritorno.  

Le major hanno un valore strategico nella visibilità che offrono. È vero, teoricamente potresti raggiungere certi risultati da solo, ma è altrettanto vero che potrebbero mettere il progetto in un angolo in qualsiasi momento. Controllano dinamiche fondamentali, come i passaggi radiofonici, che possono essere bloccati se non sei sotto il loro controllo. Lo stesso vale per la partecipazione a eventi o apparizioni televisive. E qui non si tratta solo di visibilità bensì di un sistema che decide chi può affermarsi e chi no, chi transita dal casello e chi no. È una questione di posizionamento del mercato e di gestione dei budget. Questo approccio non è nuovo: situazioni analoghe si riscontrano anche nel mondo delle start-up. Nessuna start-up trionfa realmente da sola: sono gli investitori a decidere chi merita di vincere, canalizzando flussi di denaro e risorse per far accadere le cose.

Nel mondo indie si vive ormai una crisi profonda, nonostante questo sia fondamentale per lo scouting e la gestione: tutto è risicato all’osso; e chi prima e chi dopo, si trova costretto a chiudere. Sono tante le microimprese  che sono passate da strutture con decine di dipendenti al ridimensionamento e il licenziamento di risorse e non per mala gestione ma solo per mancati margini e breakeven scomparsi. L’intero sistema è al collasso. Un tempo si riusciva a lavorare con sincronizzazioni per grandi marchi, come case automobilistiche, ma sempre più tutto viene automatizzato con strumenti come le stesse app generative che hanno appiattito dinamiche e velocizzato processi. È diventato quasi impossibile trovare e gestire artisti validi; l’industria poi sembra ormai dominata da un livello crescente di superficialità, è nel pieno del suo consumistico flow. Guadagnare lavorando con o per le multinazionali è sempre più complesso per non parlare dei turnover che rimescolano le carte e non solo tra i piani dirigenziali. E tutto si riduce ai numeri. E quando si riescono a ottenere anticipi, spesso si tratta di somme irrisorie che non bastano a garantire una stabilità economica nemmeno al progetto stessi.

Non è finita, i DSP (digital service providers) mettono in atto pratiche che rendono difficile monetizzare. Il problema è che l’intera industria sta implodendo tra colori, umori e dolori. Produttori, studi di registrazione, tecnici di mastering, case discografiche e anche editori, sì, anche loro. Tutti stanno crollando. Chi riesce a resistere potrebbe forse avere una possibilità diversificando. Però una lotta sempre più dura. Lavorare con le major è una possibile soluzione ma delle tante: è un po’ un abbraccio mortale;  possono darti un supporto temporaneo ma a lungo termine non risolvono il business.

Riccardo Sada Sada Says