Fermi tutti, sulla techno parla Andrea Benedetti… ecco il nuovo capitolo di Sada Says x AllaDisco
Un libro interessante, “La Visione Techno” di Andrea Benedetti (nella foto di Vinyl Village), uscito per Agenzia X Edizioni nel 2024 (https://www.agenziax.it/la-visione-techno). C’era una motivazione di partenza: capire perché a un certo punto il mondo fra la fine degli anni ‘80 e l’inizio degli anni ‘90 furono scelte determinate strade culturali ed artistiche. La parola techno assunse una valenza specifica nel 1990. “Proprio perché in qualche modo, in quel periodo, il mondo cambiò e quindi il mondo diventò techno; quindi c’era una massiva invasione di tecnologia a basso costo”, spiega Benedetti. “Dalle calcolatrici, dai pocket calculator di cui avevano parlato già i Kraftwerk, agli orologi digitali, nel mondo i computer cominciavano a essere di uso comune; poi dal ‘93-’94 iniziò l’era del web, il mondo stava diventando molto… tecnico, tecnologico, e quella parola a suo modo abusata mutò in contenitore con dentro di tutto”.
Non è un caso la provocazione di Paul Kalkbrenner, non prettamente un dj techno, che, però, arrivando da Berlino, sentenziò: la techno, come la intendeva lui, era morta nel ‘94. Che ne pensi Andrea Benedetti?
“Sono d’accordo, Il mio primo libro sul mondo della techno lo avevo pensato con una fine: il 1993. Perché da quell’anno in poi il genere si ramificò in maniera talmente tanto evidente che fu difficile poi identificarla; per la massa, la techno è diventata una cassa in quattro sui 140 bpm con ritmi aggressivi, un qualcosa di lontano se si vanno ad ascoltare e analizzare le prime produzioni techno che vanno dal 1985 al 1990, quindi tutta la prima fase storica con Derick May, Kevin Sounderson, Juan Atkins e Carl Craig. Quindi, Kalkbrenner ha completamente ragione da un punto di vista di genere e quindi stilistico”.
L’IDM, quella di Aphex Twin o Squarepusher, è techno?
“La cosa fantastica è – avendoli fra l’altro conosciuti, perché organizzai anche dei tour insieme a Marco Passarani e a Mauro Boris Borella del Link di Bologna, e fondamentale fu la collaborazione con D’Arcangelo – che organizzando date conobbi proprio Aphex Twin. Lui e gli Autechre inizialmente erano techno nel senso puro della parola; poi, ovviamente, se rapportate all’ultima techno, è evidente che non sia rimasta alcuna connessione. Tuttavia, da un punto di vista semantico e musicale, in effetti la prima techno è stata influenzata dall’IDM”.
D’obbligo sottolineare la “pigrizia lessicale di alcuni produttori”. Giusto Andrea Benedetti?
“In un periodo in cui fondamentalmente c’è una grandissima possibilità di diffusione delle proprie idee e anche delle proprie dei propri prodotti, perché gli artisti moderni sono dei maestri nella gestione dei social e della comunicazione, c’è una fase di stallo. Brutalismus 3000 aveva detto che noi non siamo techno: siamo antitechno. Altro fatto: se fossi un giovanissimo, mi piacerebbe utilizzare un termine che ha più di 40 anni?. Suggerisco quindi a tutti di darsi da fare, cercarsi qualcosa di nuovo, perché in fondo la techno di fatto non è solo quel suono che gira nei club o nei festival”.
Il mainstream vero è un mainstream finto perché è un mainstream club ma non è un mainstream super pop: non arriva alle radio.
“Come siamo passati da questa visione clubbing a quella rave? Da sempre noi siamo abituati a questo: andiamo in un posto, c’è una persona che si esibisce e noi la guardiamo. Siamo fermi ai dj di fine anni Settanta. Siamo sempre alla caccia di una atmosfera in cui calarsi dentro. Attraverso i miei libri ho sempre spiegato la differenza fra la house iniziale e la house codificata come la intendiamo oggi, cioè la house soulful, garage o fatta di soli pianoforti. La house iniziale era una roba molto molto minimale, molto ruvida, rozza. Il problema è che non riusciamo a ragionare su qualcosa che ci muove soltanto: dobbiamo comunque agganciarci a una melodia, è una necessità… umana; per carità, non dico che sia un limite”.
Si tratta di un problema culturale. Un po’ come la percezione della techno, soprattutto quella contemporanea, che spesso sembra l’intro o il loop caricaturale di un pezzo che poi diventerebbe anche trance, se sviluppato in progressioni armoniche. Ed ecco che molti dj techno inseriscono nei propri set, come climax o momento epico, un elemento trance.
“C’è una componente umana nel recepire e nell’apprezzare e nell’accogliere la melodia. Però ne farei anche un problema architettonico, cioè lo spazio secondo me richiama determinate cose. Questa cosa è avvenuta anche nella techno, per esempio con gli Underground Resistance, che cambiò tutto tra il ’90 e il ’91…
Succede quando loro iniziano a suonare in Europa. Stessa svolta minimale fu con Robert Hood e Jeff Mills; c’è sempre voglia di diffondere determinate sonorità a più persone possibili. È evidente che se si suona di fronte a 200 persone in un club in cui c’è una bella atmosfera, in cui sei rilassato e non devi necessariamente spingere (sul bpm), la gente entra in simbiosi con un’atmosfera che si autogenera da sola; se si suona in un posto di 2000-10000 persone, si ha la necessità di un suono big room, fondamentalmente legato a aspetti iconici.
Sarebbe interessante fare un’analisi melodico-strutturale di questi brani proprio da un punto di vista degli accordi. Ho l’impressione che verrebbe fuori qualcosa di molto simile a quelli che sono gli accordi della musica… folkloristica, che, lo dico senza essere dispregiativo, figlia di una serie di concatenazioni armoniche, dà l’idea di comunità, di stare assieme. Una cosa che funziona, che di fatto muove”.
Prendendo in considerazione tantissimi altri generi, come la house, la drum and bass, rimane un dubbio: non è che la techno venga vista come una specie di laboratorio sonoro, di un discorso prettamente underground che mai potrebbe diventare altro, cioè mai mainstream, mai in svendita?
“La techno non è… assimilabile. Se io voglio fare un remix di un pezzo di Madonna in chiave drum’n’bass, house, hip-hop posso codificarlo, magari banalizzando, prendo l’aspetto soltanto ritmico e poi ci metto sopra la canzone che mi serve. Se tu vuoi fare un remix… techno di un brano di Madonna, non puoi che banalizzarlo. Metti una cassa in quattro, una cosa tipo ‘Born Slippy’ degli Underworld, molto incessante, e poi sopra ci metti il pezzo. Cosa accade? La techno è un vestito che non si adatta a certi processi proprio perché è un approccio musicale più che un genere codificabile”.
Con i suoi tavoli popolati da ricchi, con il suo status da boomer, da mainstream, la house è ormai una cosa da club un po’ di destra, le escort, il tavolo con la bottiglia di champagne. Dall’altra parte, la techno è una cosa un po’ diversa, smascellata, con gente vestita di nero, immersa in un tunnel che porta a un groove.
“Per anni la techno, nella scena romana, è sempre stata codificata come musica di destra. Era aggressiva, come musica, malamente accettata dai centri sociali e parliamo del ’90 al ‘92. Poi, a Roma, nei rave anche, la situazione cambiò partendo dalle periferie, che avevano vissuto un periodo di grande abbandono. La techno divenne una forma di sfogo, di forma di identità. È il fruitore che avrebbe valenze politiche ma non la musica stessa. Dipende dal contesto”. Parola di Andrea Benedetti.
Riccardo Sada x Sada Says x AllaDisco