Che rapporto c’è tra dance e kitsch?
Il kitsch non è più solo provocazione: è consapevolezza. Gli artisti sfruttano l’ironia come strumento per smascherare l’artificiosità della cultura pop, mentre gli algoritmi premiano i brani più orecchiabili e instagrammabili, esattamente come MTV premiava i video più shockanti. Soprattutto, molte produzioni nascono per gioco, con challenge su TikTok. Dance music maranza come mezzo e non come fine. E se negli anni ‘90 i Rednex vestivano da cowboy finti, nei nuovi anni ’20 abbiamo Lil Nas X che cavalca una macchina del tempo tra country trap e simbolismo queer. L’obiettivo è lo stesso: stupire, divertire, vendere. Ma in un mondo saturo di contenuti, il kitsch deve essere sempre più estremo per bucare lo schermo.
Il kitsch non è più solo provocazione: è consapevolezza
E mentre i puristi si lamentano, le nuove generazioni ballano, ridendo di (e con) un passato che non ha mai smesso di essere presente. L’esplosione di brani dance tamarri, concentrata tra il 1994 e il 1999, riflette un preciso contesto storico-culturale. L’Europa, in piena euforia post-Cold War, diventò il laboratorio di un pop globalizzato, dove produttori come Denniz Pop (già dietro agli Ace of Base) sperimentavano mix tra sonorità elettroniche, testi semplici e provocazioni visive. L’avvento di MTV e dei video musicali come strumenti di marketing impose l’esigenza di concept stravaganti, facilmente riconoscibili e “vendibili” in un mercato sempre più competitivo.
Il kitsch non è più solo provocazione: è consapevolezza…
Le major discografiche, alla ricerca di hit immediate per club e radio, finanziarono progetti dal potenziale virale, privilegiando l’effetto shock e il meme ante litteram rispetto alla profondità artistica. L’Eurodance, genere dominante, funzionò da catalizzatore: con basi ripetitive e cori infantili, era perfetto per un pubblico giovane e globalizzato, desideroso di evasione dopo gli anni ‘80 segnati da crisi economiche e tensioni politiche. Paesi come Svezia, Danimarca e Olanda, tradizionalmente periferici nella musica pop, divennero centri di produzione di questi esperimenti, sfruttando budget ridotti e una mentalità anti-accademica.
Il kitsch, in questo senso, fu una scelta calcolata: caricature di generi (country, cartoon, disco) resi accessibili attraverso l’elettronica, per creare un immaginario ironico e trasgressivo. Senza il successo di questi brani, difficilmente avremmo visto l’ascesa successiva di fenomeni come la disco-punk dei LMFAO o l’hyperpop di oggi, che ereditano la stessa logica di eccesso e provocazione. Negli anni ‘90, la musica dance raggiunse picchi di stravaganza mai visti, producendo hit che oggi appaiono come reliquie di un’epoca audace e senza freni. Gli Aqua con “Barbie Girl” (1997) trasformarono una bambola in un inno pop-dance ambiguo, mescolando doppi sensi a melodie orecchiabili, mentre i Vengaboys con “Boom Boom Boom” (1998) esportarono feste sregolate in mondi tropicali fittizi, accompagnati da video ipercolorati. I Rednex, con “Cotton Eye Joe” (1994), fusero folk country ed elettronica, creando un ibrido improbabile sostenuto da coreografie da saloon riletto in chiave rave.
I Cartoons con “Doodah!” (1998) scommisero su un jingle cartoonish, trascinando l’ascoltatore in un vortice di voci accelerate e ritmi da videogioco arcade.
A questa lista si unisce “Scooby Dooby Boy” dei Cometz (1997), brano dance ispirato al celebre cartoon *Scooby-Doo*, con un ritornello ipnotico e un videoclip che mescolava pupazzi animati e ballerini in tuta spaziale, simbolo di un’era in cui persino i riferimenti per bambini diventavano pretesti per sperimentazioni sonore al limite del surreale. Questi brani, spesso criticati per testi superficiali o nonsense, sfidarono i canoni musicali, puntando tutto su ritornelli ossessivi e immagini provocatorie: copertine con personaggi dai capelli fluorescenti, abiti latex e scenari surreali diventarono marchi di fabbrica. Altri esempi includono “Blue (Da Ba Dee)” degli Eiffel 65 (1999), con la sua narrazione distopica tinta d’azzurro, e “Scatman (Ski-Ba-Bop-Ba-Dop-Bop)” di Scatman John (1994), che trasformò balbuzie e scat in un tormentone globale. Non mancarono polemiche: “Barbie Girl” fu accusato di sessismo, “Cotton Eye Joe” di appropriazione culturale, mentre “Scooby Dooby Boy” venne tacciato di svilire un’icona dell’intrattenimento infantile, ma il successo commerciale fu innegabile.
L’apice del kitsch si toccò con progetti come i Toy-Box, danesi autori di “Best Friend” (1999), che vestivano costumi da peluche giganti, e gli S.O.A.P. con “This Is How We Party” (1997), inno alla spensieratezza da discoteca con testi a malapena camuffati da metafore adolescenziali. Questi singoli, oggi da nostalgici, rivelano un’industria musicale disposta a osare pur di catturare l’attenzione, anche a costo di sembrare ridicola.
Se da un lato rappresentano il lato più consumistico della dance, dall’altro hanno plasmato un immaginario collettivo fatto di eccessi, colori e irriverenza, influenzando persino meme e TikTok decenni dopo.
La stessa “Scooby Dooby Boy”, seppur meno ricordata, anticipò l’estetica “Y2K” fatta di grafiche pixelate e riferimenti anni ‘70 rivisitati in digitale, mentre i Vengaboys diventarono icone LGBTQ+ prima del tempo, grazie a una rappresentazione della festa come spazio di libertà assoluta. L’eredità di questi brani è ambivalente: per ogni critica alla loro profondità artistica, c’è una celebrazione del coraggio di aver infranto regole e gerarchie musicali. In un’epoca in cui la musica si è frammentata in nicchie, questi monumenti anni ‘90 restano simboli di un tempo in cui la dance era un linguaggio universale, capace di unire teenager e adulti, pur tra risate e occhi al cielo.