Come una catena di montaggio. Nell’industria musicale domina il marketing o la musica? Sada Says 24 02 25

Come una catena di montaggio... Riccardo Sada riflette su musica e marketing.

L’industria musicale è diventata un gigantesco laboratorio di marketing. Ogni accordo, ogni testo, ogni immagine di un artista è calibrata per colpire un segmento preciso di pubblico. Non si crea più musica, si costruiscono prodotti. 

E come in ogni catena di montaggio, il risultato è standardizzato: canzoni pensate per durare il tempo di uno story su Instagram, ritornelli ossessivi studiati per agganciarsi alla memoria corta dell’ascoltatore medio, testi vuoti che evitano qualsiasi profondità per non disturbare il consumo passivo. 

Spotify, TikTok, YouTube: piattaforme che promettono libertà, ma che in realtà sono macchine per generare profitto attraverso la profilazione. Gli algoritmi non premiano la qualità, ma l’aderenza a modelli già collaudati. Un brano che funziona è un brano che somiglia a un altro brano che ha già funzionato. 

Il risultato? Un circolo vizioso in cui i gusti del pubblico sono plasmati da ciò che il sistema decide di mostrare, e il sistema mostra ciò che statisticamente trattiene l’attenzione. 

Catena di montaggio o industria musicale? 

Non c’è spazio per il rischio, per l’originalità, per l’arte che sfida le aspettative. Si è creato così un doppio binario: da un lato la “musica di massa”, pensata per essere digerita senza sforzo, dall’altro nicchie iper-curate, spesso elitarie, che sopravvivono come fenomeni di culto. Il problema? Entrambi gli estremi sono figli della stessa logica: il target. Persino gli artisti alternativi, quelli che si definiscono “contro il sistema”, finiscono per diventare merce di un mercato parallelo, confezionati per un pubblico che vuole sentirsi speciale. Il digitale ha democratizzato l’accesso alla musica, ma ha reso quasi impossibile vivere di arte. 

I dati sono impietosi: secondo una ricerca di Music Business Worldwide, meno dello 0,5% degli artisti su Spotify guadagna più di 50.000 dollari l’anno. 

Le major, intanto, controllano il gioco attraverso playlist globali come RapCaviar o Today’s Top Hits, vere e proprie vetrine che decidono chi diventa una star e chi no. E gli artisti? Molti si piegano alle regole. Si studiano i trend su TikTok, si copiano le sonorità virali, si scrivono testi privi di significato pur di ottenere quel miliardo di stream che garantisce visibilità (ma non necessariamente soldi). Altri, invece, scelgono la via dell’autoproduzione, rinunciando al mainstream per coltivare comunità ristrette. Ma anche qui, il confine tra autenticità e strategia commerciale è labile: persino Bandcamp, piattaforma simbolo dell’indipendenza, è diventata un catalogo di generi ultra-specifici, ognuno con il suo pubblico predefinito. In questo scenario, la critica musicale è in agonia. I pareri degli esperti contano meno dei numeri: se un brano va virale, deve essere “buono” per definizione. 

I like e le condivisioni sostituiscono l’analisi, il dibattito si riduce a meme e flame su Twitter (o X). E mentre le piattaforme celebrano l’inclusività (“c’è spazio per tutti”), in realtà standardizzano l’ascolto: una canzone reggaeton, una trap, un brano indie-folk devono rispettare parametri precisi per essere inseriti in una playlist. Persino il concetto di “album” è in via d’estinzione. Perché sprecare 12 tracce quando l’utente medio salta il brano dopo 30 secondi? Meglio rilasciare singoli a raffica, puntando alla canzone perfetta per i workout o le feste in piscina. C’è chi prova a resistere. Artisti come Björk o Kendrick Lamar sperimentano ancora, sfidando i formati e i tempi di attenzione. Etichette indipendenti come Warp Records o Sub Pop continuano a scommettere su suoni innovativi. Ma sono eccezioni in un sistema che premia la ripetizione. 

Catena di montaggio o industria musicale?

Forse la speranza sta nel pubblico. Se smettessimo di accontentarci di ciò che ci viene propinato, se ricominciassimo a pretendere musica che ci sfidi, che ci commuova, che ci costringa a pensare, forse l’industria sarebbe costretta a cambiare. Ma per farlo, dovremmo prima di tutto riconoscere di essere noi, ascoltatori, il vero target. E decidere se vogliamo restare consumatori passivi o diventare nuovamente appassionati. Il digitale ha ampliato le possibilità tecniche, ma ha ristretto gli orizzonti culturali. La vera sfida non è tornare al passato, ma ripensare il futuro: un’industria in cui gli algoritmi servano l’arte, non il contrario.

Finché continueremo a confondere la popolarità con il valore, però, resteremo intrappolati in un loop di canzoni di merda per gente di merda.


Riccardo Sada
 
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