Spotify si sta magnando tutto. Sada Says @ AllaDisco by Riccardo Sada questa settimana spinge forte, fin dal titolo…
Bandcamp era un bel posto, nel mondo della musica. Era l’unico in cui ci si poteva sentire liberi e nel contempo al sicuro, compresi come artisti. Spotify se l’è mangiato in un sol boccone. Non è mai stato veramente un concorrente di Spotify. Ma era un’alternativa. Era un campo per band, un luogo dove i fan, anche se non volevano pagare per scaricare musica, potevano tenere d’occhio i propri beniamini, ricevere aggiornamenti sui tour, acquistare merchandising, parlare, cercare, costruire, scoprire nuova musica. Musicisti, artisti, produttori: preoccupatevi.
Il cerchio si restringe, il monopolio allarga le maglie. E riducendosi il campo diventa sempre più improbabile guadagnarsi da vivere con la musica. Gli aspiranti attori possono anche indirizzarsi verso realtà come CashApp o GoFundMe. Ma non è la stessa cosa. La musica in streaming dilaga, vince a mani basse. I servizi di streaming rappresentato ormai gran parte dei ricavi della musica registrata, con i media fisici che rappresentano una piccola parte del business e i download digitali che ammontano quasi alla cosmica. Per la maggior parte degli ascoltatori, il calcolo è abbastanza semplice. Lo streaming è più economico dell’acquisto di musica. È più semplice e almeno formalmente più etico della pirateria vera e propria. È anche operativamente integrato nella cultura: se desideri condividere una canzone, un album o una playlist con gli amici o il pubblico, probabilmente utilizzerai Spotify.
Spotify che è il più grande servizio di streaming in assoluto. E che si sta magnando tutto. Attenzione, non mangiando tutto: proprio “magnando” tutto. Magnando. Condizionale. Che sa più di abbuffata. Sa di all you can eat o all you can hit.
Il successo di Spotify è fortemente qualificato. Potrebbe essere il Netflix della musica ma non ha mai registrato grandi profitti. Solo a pensare al 2022, con quasi mezzo miliardo di utenti nel mondo, di cui circa 200 milioni pagano il servizio, il brand svedese ha perso 430 milioni di euro. Questo strano risultato, in cui il perdente prende tutto, che accade di tanto in tanto nel settore tecnologico, dove alle aziende dominanti è permesso sperperare denaro per anni alla ricerca del dominio a lungo termine del settore, significa che la più grande storia di successo dell’industria musicale del ventunesimo secolo può anche sembrare in stato d’agitazione. Ci sono stati licenziamenti e un aumento dei prezzi, per l’azienda che inoltre si ritira sempre più dal suo vistoso investimento nel podcasting. Le royalties rappresentano di gran lunga il costo operativo più importante, ma al di fuori di una piccola fetta di coloro che guadagnano di più, molti artisti sono rimasti scioccati da quanto poco denaro finisce nelle loro tasche. Ingiustizia? È il mercato, fatevene una ragione.
La risposta di Spotify alle critiche degli artisti tende ad alternarsi tra la supplica della povertà e i discorsi di come sia lo stato dell’arte. Pensare che nel 2020 il CEO Daniel Ek difese a spada tratta le decisioni sulle retribuzioni. Alcuni artisti che hanno avuto successo in passato potrebbero non avere successo in futuro, secondo Ek. Forse non è possibile produrre musica vendibile e mantenere un trend positivo una volta ogni tre o quattro anni. Parte dei pagamenti di Spotify arriva agli artisti grazie ad accordi che esulano dal controllo di Spotify stesso.
Ma come funziona? Spotify si sta magnando tutto, d’accordo… ma come?
Grandi corporazioni legate al comprato musicale, tra cui le major Universal, Sony e Warner, sono comproprietarie di Spotify e sono molto soddisfatte degli accordi presi dai propri artisti con il colosso scandinavo.
Al posto delle royalties sul flusso generato dalle dsp, agli artisti vengono lasciati i proventi di live e di attività legate al merchandising. Un artista deve considerare lo streaming solo sorta di vetrina, uno strumento promozionale per la vendita di altro: dai biglietti d’ingresso alle magliette, sino a libri e quanto altro. Tutto. Basta che questo tutto sia lontano dalle piattaforme di vendita, dai digital store che esercitano ancora molta influenza controllando quali artisti debbano essere visti e quali no, attraverso le sue popolari playlist curate e da onnipresenti strumenti di raccomandazione. Spotify non è così diverso da un X o da un TikTok, è in fondo un social network peculiare e nello stesso tempo fondamentale.
La centralità di Spotify per il business è tale che sta persino cambiando l’ecosistema della musica pop
Senza Bandcamp che vita è? Meno divertente. Spotify probabilmente aumenterà le vendite slegate al settore musicale, col passare del tempo, e rafforzerà sempre più il processo di cambiamento. La sua posizione come piattaforma predefinita dell’industria musicale è dominante e per i più piccoli è pericolosa. Spotify sulla carta è un bene e dall’altra un bulldozer che pialla tutto al suolo. Ma è uno strumento e per questo non può e non deve essere giudicato. Spotify è un transatlantico in mezzo all’oceano del music business e sta affrontando i problemi come fa ogni gigantesco scafo tra le onde di Internet quando è in fase avanzata, almeno prima che scopra i suoi limiti. Presumendo la vittoria totale e finale e il controllo sul segmento che sta dominando, Spotify riconosce la sua centralità e la sua egemonia. Potrebbe iniziare a diversificare. Partendo proprio dalle attività e dalle offerte di quelle realtà che man mano che passa il tempo sta acquisendo.
Nel primo trimestre del 2024, Spotify (pur magnando tutto…) introdurrà tre importanti novità. Di queste, almeno due sembrano essere ben ponderate.
La prima riguarda l’istituzione di multe per coloro che distribuiscono musica sulla piattaforma in modo fraudolento, relativamente alle tracce pubblicate sulla nota dsp. Considerando l’ampia diffusione di questa pratica, tale decisione appare più che giustificata. La seconda modifica coinvolge coloro che creano tracce di sottofondo come suoni di pioggia, vento o neve. Questo cambiamento avrà un impatto sul loro guadagno, poiché molti di loro hanno utilizzato strategie poco ortodosse, come suddividere le tracce in file audio da 31 secondi per eludere le regole di Spotify. Questa modifica mira a porre fine a tali controversie. Tuttavia, la terza novità annunciata da Spotify rappresenta una vera rivoluzione e riguarda i piccoli creator. Per loro sarà ancora più difficile guadagnare.
Nonostante sia principalmente utilizzata per ascoltare le opere di big, l’applicazione viene anche impiegata da creator musicali emergenti per la condivisione dei propri brani. Tuttavia, per questi ultimi, guadagnare in modo significativo sarà ora un’impresa ancor più ardua, dato che sarà introdotta una soglia minima di stream annuali per ottenere le tanto desiderate royalties. In questo nuovo scenario, per ottenere un guadagno sostanziale, i produttori minori dovranno accumulare centinaia e centinaia di riproduzioni ogni mese. Molti ci riescono effettivamente, soprattutto coloro le cui canzoni diventano virali. La situazione si complica ulteriormente dal momento che, nel caso in cui non si raggiunga una certa quota di stream, i guadagni generati non andranno ai produttori stessi: saranno redistribuiti in favore dei grandi artisti. A tratti, ricorda un po’ il calderone della Siae, ‘sta cosa. Se ciò si concretizzerà, rappresenterà un duro colpo per chi costantemente lotta per farsi conoscere.
(Riccardo Sada x Sada Says x AllaDisco)