Merda d’artista o artista di merda?
Quando si parla di artisti, la prima cosa che (mi) viene in mente è un monte innevato anche in estate, scivoloso, impervio e soprattutto ricco di domande. Partiamo con la prima? Allora: chi può autodefinirsi artista? Il primo dj sprovveduto che non sa accendere una consolle oppure solo un Raffaello e un Michelangelo?
Chiunque può professarsi artista, pochissimi verranno definiti tali. In democrazia, tutti, a proprio modo, sono o si sentono artisti. Artista vero non è solo chi riesce a creare un’arte, che sia musica, pittura, recitazione o altro, artista vero ci nasci e non ci diventi. Si chiami talento, ossia quello che ti permette di creare in ogni situazione qualcosa che poi rimane, si chiami vocazione, resta il fatto che l’artista è icona ma non ruolo.
Mika, in una puntata de Il Testimone condotto da Pif, ha detto che quella dell’artista è una vita di merda, soprattutto in ambito musicale, dove tutti si danno addosso, se le dicono dietro, se le danno di santa ragione nei backstage e fanno i bravi di facciata sui social o attraverso i comunicati stampa. Una carriera in cui sei sempre daccapo quando ti metti davanti al tuo strumento principale, che sia una tela, un pianoforte o un blocco di marmo.
Merda d’artista o artista di merda, si chiede Riccardo Sada. O come diceva Leo Longanesi, “l’arte è un appello al quale troppi rispondono senza essere stati chiamati”?
Vita grama, dura, quella dell’artista. Lo sa bene Caparezza che nel suo brano “Il secondo secondo me” ha voluto dire attraverso il suo manifesto musicale che “il secondo album è sempre il più difficile nella carriera di un artista”. Insomma, uno stress che ti porti dietro sempre e comunque, sapendo che la critica è dietro all’angolo, ti aspetta come in un agguato, per massacrarti o a volte per encomiarti.
L’artista autodefinitosi tale si trova in una posizione scomoda. Liscia il pelo del giornalista ma quando è piccolo dentro, e diventa grande con i numeri, ti schiva o peggio, come dicono a Napoli, ti schifa. Essere sempre lì, in tensione, a misurare quanto sia più lungo il membro della concorrenza, non è che sia così piacevole.
Eppure l’artista, nel suo mondo poco sadico e molto masochista, cerca la competizione. E più il settore permette di ingannare il pubblico e più la realtà dell’artista è lieve. Prendi uno sportivo, potrebbe essere paragonato a un artista per le sue gesta, i suoi atti funambolici gridano al miracolo e ti ricordano che se non sai palleggiare non sarai mai un Maradona.
Per la categoria dei neo musici la cosa è diversa: un autotune per un trapper che voleva essere rapper o un tasto sync da pilota automatico per un dj e la farsa è servita, lo smascheramento arriva ma con templi quasi biblici e allora puoi fregare tutti, ingannare i meno esperti.
Poi però cadi e il tonfo del finto artista si avverte a chilometri di distanza e i social ti massacrano perché le fan base si sentono tradite, ferite. Il problema quindi è che davanti alla gente gli artisti sono come Guidobaldo Maria Riccardelli e Fantozzi in platea.
All’artista – che poi l’artista che intendo io sta nei musei e non su Spotify – risulta difficile cambiare idea su qualcosa, perché le sue opinioni si basano spesso più sulle emozioni che sui fatti. Così, tracotante, barcollante a appesantito dall’ego, l’artista si sente ancor più artista, soprattutto nell’odierno.
Coloro che studiano la dissonanza cognitiva (a modo loro) sostengono che l’artista, e in modo particolare il dj, piuttosto che ampliare le proprie visioni, tende a negare o sminuire nuove informazioni quando queste si rivelano troppo scomode. In quanto animali sociali, gli artisti sono portati automaticamente a pensare che cambiare opinione su qualcosa sia un tradimento verso il proprio gruppo sociale, una roba che sa di ceto, e teme di venire isolato se le sue idee non sono conformi. Quindi, restando nella mediocrità, largo al rimpasto e… nulla di nuovo all’orizzonte. C’è solo il timore del flusso, dell’irresistibile impeto del contenuto selvaggio.
Andando oltre la domanda “Chi controlla il controllore?” si può arrivare a “Chi giudica il valore dell’arte?”.
Un critico? Meglio di no. Spesso un critico è un artista mancato o un uomo frustrato. Merda d’artista o artista di merda? Nel dicembre del 1961 un artista, Piero Manzoni, sigillò novanta barattoli di latta su cui applicò un’etichetta identificativa. Una latta simile a quelle delle carni in scatola con una dicitura in quattro lingue. È stato per Manzoni un atto dal valore simbolico, un’opera di rottura di cui si può parlare all’infinito. Ma era il 1961.
Non è che oggi un filomanzoniano possa creare il prototipo dell’Artista di Merda, ossia colui che invade gallerie e cloud con produzioni di dubbio spessore e di incerta visione?