Musicwashing? Che roba è? Ce lo spiega Riccardo Sada…
Lo splendido Riccardo Sada ci regala, ancora, un bel po’ di idee musicali (e non), sul presente e sul futuro del music biz. Pronti per capire che roba è il musicwashing? VIA!
La Coppa del Mondo di calcio 2022 in Qatar è effettivamente la più controversa tra le ultime competizioni calcistiche (soprattutto dopo quella tenutasi in Russia un quadriennio prima) tra polemiche legate ai brand alcolici e ai messaggi (d’amore) politici da parte dei giocatori: rischia di creare diversi precedenti andando oltre le accuse di sportwashing (quando i governi utilizzano eventi sportivi di alto profilo per riciclare la loro reputazione internazionale) e facendo peggio di quello che accadde con Jovanotti in estate (sempre 2022, che anno maledetto quello della ripresa!) accusato dagli “econazisti” (…) di greenwashing (quando si strumentalizzano appuntamenti di alto profilo per fare ambientalismo di facciata e si consacrano volatili come il fratino e con riti pagani si santificano le spiagge).
Dopo lo sportwashing e il greenwashing rischiamo qualcosa di ben più difficile da gestire, data la sua diffusione: il musicwashing.
Durante la bollente Coppa del Mondo un milione e mezzo di fan semiannoiati, tra sabbia e grattacieli, e in costante viaggio, barcollanti tra feste e spettacoli anche per diverse settimane, svernano e ballano durante Aravia Mdlbeast, una serie di megaspettacoli con headliner abituati a occupare stadi come Steve Aoki, David Guetta, Jorja Smith, Tinie Tempah, Fatboy Slim e Rae Sremmurd. Ad aggiungersi a ciò, festa grande al World Stage presso il Doha Golf Club, con Black Eyed Peas, J Balvin, Post Malone, Robbie Williams e Maroon 5, e ancora l’Arcadia, qualcosa che avrebbe dovuto ricordare Glastonbury ma show privo della stessa enfasi, con 150 spettacoli live e line-up capitanate da nomi come Gorgon City e Camelphat. Insomma, un grande harem dove dimenticare che la birra è difficile da reperire e che la musica occidentale è consentita alla faccia dei veri regimi (…).
Ora, si intuisce e si comprende che un artista è un libero professionista e suona ed esercita dove, come e quando vuole: solo che in un contesto così poco distante dalle nostre vedute, così tanto esotico e così sommerso da petrodollari inizia a sorgere qualche dubbio.
Tanti artisti non sono stati radunati in loco, tra cammelli, per fare cassetta (non ce n’è bisogno a questa latitudine) bensì per ringiovanire e rendere smart le politiche locali: una bella ripulita all’immagine governativa con una cascata di beat e tutta la filiera è felice e contenta. Hai visto mai che un locale che indossa una dishdasha sia più affabile e attraente se balla con noi un pezzo di Drake?
Chi assiste agli show, chi li tiene, chi li organizza e chi foraggia qui ha terreno fertile. Qui sono tutti soddisfatti. La strategia dei paesi dell’area del golfo per ridurre la propria dipendenza dalle entrate petrolifere e ammorbidire la immagini istituzionali a livello internazionale è evidente. Ora, stiamo parlando di popstar non scomode quelle convocate.
È vero, a volte c’è una Dua Lipa che si lamenta, dice la sua sui diritti umani attraverso i social, o c’è un Maluma o una Nicki Minaj si schierano dalla parte dei più deboli, degli invisibili. Ci sta. Tutto fa brodo, anzi kebab.
Il sostegno ai diritti delle donne, alla comunità LGBTQ+ e alla libertà di espressione, comunque, lo sappiamo, è più semplice da fare dal divano che in presenza e in territori che davvero la pensano diversamente da noi, perché è questo il nocciolo della questione, è questa la camera magmatica che genere prima lapilli e poi colate violente fatte da shitstorm. È il vento dei biasimi. È la natura della censura. C’è un forte consenso per il dissenso.
È possibile che, dopo anni di spettacoli dal vivo limitati e con tour fatti di sogni infranti (dalla pandemia), gli artisti e i loro team avvertano, nonostante certe riprovazioni, di non essere più nella posizione di rifiutare un ingaggio. Non è una questione legata all’offerta e alla richiesta, è solo che il mercato è ballerino, schiavo di dinemiche fragili e qui stiamo parlando di soldi, di tanti soldi, in un momento di estrema confusione.
Chi si vergogna di andare a prendere a piene mani tipo bancomat budget sauditi, che per anni hanno eccitato booker assatanati e disperati, importi dai tre alle sei volte normali? Viva il Qatar e i suoi rial (la sua moneta), le sue connessioni…. e w pure il musicwashing.
Molti dj dicono di non suonare per i politici bensì per le persone. Bravi. È una questione politica, allora? È una questione economica? No. E non facciamo i falsi moralisti. Chiedersi, in piena prostituzione artistica – perché anche di questo si tratta, di essere versatili per il capriccio altrui, come dei juke-box umani, con la playlist pronta a essere violentata e radicalmente stravolta in tempo reale – se si è intenzionati a essere coinvolti e complici di questo meccanismo, di questo musicwashing, in un momento così delicato e folle, è forse fuori luogo.
Riccardo Sada per Sada Says
1 thought on “Sada Says: parleremo un domani di musicwashing. Anzi, no, facciamolo ora.”