Sada Says… e anche tu potrai dire: lo sapevo già! L’ho letto su AllaDisco e l’ha scritto Riccardo Sada.
Eccoci! Ci siamo! AllaDisco ospita orgogliosamente il primo degli interventi che il mitico Riccardo Sada, giornalista dance di lungo corso, produttore (e non solo regalerà al blog più sgarruppato del panorama itagliano (con la g). Tutto riguarderà il music biz e lo troverete qui, più o meno una volta la settimana, nella rubrica Sada Says. Certo, poete avere il vostro parere. Oggi tutti ne abbiamo uno e ci sentiamo così intelligenti. Se però non siete sempre e comunque d’accordo con Sada sbagliate. Sempre. E qui su AD ve lo scriviamo subito, preventivamente.
Web3 potrebbe essere una sconcezza nell’industria musicale, forse qualcosa di più: un’illusione pia. È una di quelle parole che stando bene sulla bocca di tutti possono rientrare non solo nella norma anche essere collocate tra le più motivanti. Invece, web3 è ritardante e snervante, spiazzante, pare partorita da un essere metà nerd e metà radical chic. Un termine che da una parte ti vuole portare sulla strada delle nuove tecnologie e dall’altra rassicurarti che quelli delle IT ne sanno più di te, hanno la palla di vetro, devi ascoltarli e così vivrai meglio, dentro e fuori il mondo b2b o consumer musicale.
I creativi hanno questo difetto, vogliono prenderti spesso per mano che accompagnarti nel futuro correndo…
Se già non capisci di piattaforme e compressioni, di metadata e flussi, allora resterai frastornato e smarrito davanti ai loro discorsi fatti di artisti pagati con criptovalute, opere tutelate da sistemi blockchain e fan base farcite di NFT, in un metaverso che fa il verso di se stesso, che oggi è un avatar fatto da specie di Pixar e domani da bit che sembreranno atomi.
Tim Cook, ceo di Apple dal 2011, dice che è importante che le persone capiscano cosa sia il metaverso e non è “certo che la maggioranza sappia realmente di cosa si tratta”. Una cosa tra l’altro molto modaiola, oggi, nel 2022, e che sta un po’ a Fortnite o al mai compianto Second Life. Biada per poveri mentre i ricchi si fregano le mani, sprofondati in poltrone che sembrano di pelle umana.
Solo perché uno è un creatore/produttore creativo – ma non è Dio -, solo perché uno ha uno studio pieno di led e schermi o solo perché uno debba ampliare il proprio portfolio clienti, non è detto che debba entrare nello stargate o in un’ottica da “Ready Player One”. La fantascienza precede sempre più la scienza e la realtà, ma resta confinata ai lungometraggi e alle visoni di Asimov, nelle pagine di Urania.
Vero, prima di mettersi sulla difensiva o alzare gli occhi al cielo, bisogna ripromettersi di non avere preconcetti su mirabolanti algoritmi, proto IA, web3 nel senso orizzontale del termine, 6G, cryptofantasie e catene di Sant’Antonio e chain varie. Ma le perplessità sono dietro l’angolo.
Ora, voi direte: che c’entra tutto ‘sto domani patinato e fatto di laser e quanti con la musica?
C’entra perché il music business è da sempre il più grande laboratorio a cielo aperto – anche se spesso in studi di registrazione claustrofobici – delle nuove tecnologie. È dall’inizio del nuovo millennio che non si fa parlare d’altro che di digitale in tutte le sue forme e di hardware e di robotica e il mondo della discografia e del live si è adeguato in silenzio, quasi godendo, quasi pensando che potesse essere l’unica strada.
In un mondo sempre più spinto verso cambiamenti radicali e inimmaginabili, almeno dal punto di vista del nostro tessuto economico, sociale e culturale collettivo, nell’aria soffia a volte un venticello di retromania, nostalgia, che porta al retró come pensiero e al vintage come manufatto. La bolla delle dotcom e le fake speranze che la tech economy possa salvare il mondo come in un film della Marvel sono distopie travestite da utopie.
Sono sòle d’autunno e riecheggiano rivivendo con ciclicità. Siamo in piena era startuppiana e di un liberi tutti che stordisce, infastidisce, tuttavia l’industria nel suo insieme va avanti come un mostro a sette teste, peggio: come un Godzilla affamato.
Che fare se non stare in riva al fiume a guardare? Il nostro proselitismo però deve avere uno scopo, anche perché stiamo solo digerendo ora Spotify con le sue 100mila nuove tracce quotidiane caricate e il web2 che si inceppa al primo sbraitare di qualche dittatore.
Non sappiamo nemmeno bene cosa sia effettivamente una totale trasformazione digitale ma vogliamo iniziare a parlare di NFT, metaverso, criptovalute, contratti decentralizzati e intelligenti, DAO, blockchain e, ovviamente e complessivamente, web3.
Il marketing qui non c’entra, ci sono in ballo nuovi modelli creativi e di business. I mercati musicali sono saturi e faticano a trovare nuove vie e nuovi modi per relazionarsi con i consumatori. I flussi di entrate e la trasformazione della musica in tutto quello che fa merchandising quasi ricorda il mondo del cinema che quando barcolla deve affidarsi ai franchising.
La produzione è in aumento, il design è forsennato, la governance dei marchi vacilla a ogni insuccesso. Il risultato finale è la differenza tra vomitare contenuti che paiono come fantasiosi, che sfruttano la scia del web3, ma che ci occludono intestino e ci saturano orecchie e cervello.
Di idee rivoluzionarie nel comparto delle sette note ce ne sono sempre meno.
Il resto sono tutti raffazzonamenti di app e/o piattaforme che aggiustano sempre di più il tiro. È anche un selvaggio west e con il ritmo dell’innovazione in corso, è abbastanza facile prevedere come andrà a finire: in un mondo tra il fantastico e il distopico sommerso da corporazioni che ci ricopriranno di beni soprattutto non richiesti, senza dubbio non di prima necessità.
La musica è un bene di prima necessità? Per alcuni sì. Per molti no. Vogliamo farcene una ragione?