di Leonardo Filomeno – 16 novembre 2016
“Volevo lavorare nel mondo della musica. Volevo fare la mia musica. Ai tempi non c’erano scuole, corsi, tradizioni famigliari a cui aggrapparsi. A Pedrocca, piccola frazione in cui sono nato, nessuno capiva il percorso, nessuno capiva la metà. C’eravamo io, quel sogno e basta”. Giacomo Maiolini nemmeno si offende se per parlare del suo lavoro a un certo punto salta fuori la parola ossessione. Bresciano, 53 primavere portate alla grande, ha costruito per la sua Time Records un’impalcatura d’acciaio, rendendola un gioiellino tra le realtà indipendenti italiane. Per anni ha cavalcato e modellato filoni e tendenze secondo un disegno personale, quasi sempre infallibile. Il suo successo è legato ai numeri folli dell’Eurobeat, all’Italo House di Jinny, ai successi inarrestabili di U.S.U.R.A., The Outhere Brothers, The Tamperer o Black Legend, alle compilation d’oro con Albertino e agli investimenti su Imany e Caro Emerald in tempi non sospetti.
Non male per uno che sembrava destinato al classico posto in banca.
“Mi avevano fissato un colloquio a Mantova, ma quella mattina la sveglia non suonò. Un fatto decisamente inspiegabile per uno così fissato con la precisione. Quando saltai dal letto era troppo tardi, restai a casa, assecondando in qualche modo il mio destino”.
Eri un clubber atipico, entravi in discoteca con penna e foglietto alla mano.
“Chiedevo i titoli al dj, la mattina dopo mi fiondavo da Pinto Dischi a Brescia. Il primo singolo? Let Me Trouble di Deborah Haslam, prodotto con Gianfranco Bortolotti. Funny dancer degli Atrium fu il primo disco pubblicato su Time, nell’autunno ’84”.
“Fly To Me” degli Aleph e il Giappone arriveranno da lì a pochi anni.
“Sudo freddo se ripenso a quei numeri. Nel ’92 partecipai all’Avex Rave Party, a Tokyo, 15 mila presenze, uno spettacolo impressionante. Grazie all’ondata di successi Hi-NRG ed Eurobeat contenuti nelle compilation tarate per il Sol Levante, ero diventato molto popolare da quelle parti. Artisti giapponesi davvero importanti sceglievano i brani di quelle raccolte per reintrerpetarli. Super Eurobeat superò le 800.000 copie. Nel 2000 con Super Eurobeat presents Initial D – D Non Stop Megamix e Super Eurobeat 100 vinsi addirittura 2 Grammy”.
Ricordi che sanno d’aria fresca, se si pensa che oggi la discografia annaspa.
“Le hit non esistono più, i produttori sono confusi, si naviga a vista. Le produzioni cosiddette normali corrono il rischio di risultare invisibili: un tempo il pubblico le metabolizzava, il mercato ti perdonava i dischi fatti in serie. Ora i filoni non esistono più, vince il primo che arriva. Anche i lavori di Calvin Harris e David Guetta ultimamente sono di una banalità disarmante, si salvano per la firma: gli stessi dischi, col nome di un esordiente, non andrebbero da nessuna parte. Trovare gente fresca e nuova che faccia bella musica sta diventando impossibile. I produttori italiani della nuova generazione non hanno un punto di riferimento quale poteva essere Albertino negli anni ’90”.
Tolto lui, contro la dance le radio italiane sembrano remare compatte.
“Invece nel resto d’Europa sono più ricettive che mai. Come Time, siamo stati costretti a virare sul pop. Se avessimo continuato a fare solo dance saremmo falliti”.
La Deejay Parade è tornata, manca dunque la musica?
“Non la seguo. In tanti reclamano il ritorno della compilation, ma non credo avrebbe il successo degli anni ’90. Quella di Alberto è una ripartenza, c’è bisogno che il suo torni ad essere un appuntamento consolidato”.
Quella collana nacque davanti a una pizza.
“Domenica sera, Pizzeria Summer, Milano, zona Parco Sempione. Il compianto Severo Lombardoni organizzò una cena a 3: c’eravamo io, lui e Claudio Cecchetto. La mia idea era quella di trasformare il programma radiofonico più ascoltato d’Italia in una compilation. Col quinto volume superammo le 300.000 copie. Festeggiamo al Genux, 15.000 presenze. Un momento irripetibile”.
Lombardoni è stato per te un maestro, un padre.
“Il primo disco che proposi alla sua Discomagic era scadente. Mi riscattai con Fly To Me degli Aleph, per quella produzione Severo mi offrì 10 milioni. Troppi, per me. Puntai al ribasso. Chiudemmo per 8. Era il mio modo di fargli capire che puntavo a spianare una strada lavorativa, qualcosa che col tempo, anche grazie alla grande amicizia con i suoi fratelli Anna e Vittorio, ha assunto dei contorni familiari”.
A proposito di famiglia, Alex Gaudino torna a casa.
“Sarà a capo della Sunrise. Nulla a che vedere con Rise Rec, sarà un’avventura totalmente proiettata al futuro”.
Guardando all’epopea della Rise, quale fu il momento più elettrizzante?
“Senz’altro quello legato al successo di You See The Trouble With Me di Black Legend. All’inizio snobbato da tutti, Pete Tong arrivò a chiedermelo in ginocchio, invano. Il sample originale, We’ll be in trouble, era cantato da Barry White. Chiesta l’autorizzazione per l’utilizzo, il manager si mise di traverso, però avevamo il via libera della Warner sui diritti. Furono settimane di tensione estrema, andavo avanti a tranquillanti (ride, ndr). In quei giorni a Brescia gironzolava Elroy Powell, un ragazzone inglese con una voce uguale a quella di White. Fu la salvezza mia e di Alex. La Winter Music Conference del 2000, dove portammo il disco, inaugurò una serie di trionfi a raffica”.
Sei fissato con l’ordine, hai un senso pratico della vita quasi mostruoso.
“Guai a trovare un disco fuori posto. Se percepisco che la posizione è errata, devo raddrizzarlo o spostarlo immediatamente, altrimenti sto male. Sono così su tutto, è una modalità che tocca anche il fattore umano. Una persona nuova la valuto come un brano mai sentito prima, deve provocare subito delle emozioni, altrimenti andare d’accordo sarà difficile. Negli ultimi tempi, comunque, ho smorzato lati appuntiti del mio carattere. Mi sono dato una calmata. Prima di mandare a fanculo qualcuno ora ci penso due volte (sorride, ndr)”.
Chiaramente il nome “Time Records” ha a che vedere con la tua percezione del tempo.
“Credo proprio di sì, ma lo scelsi inconsapevolmente. Il primo logo, quello disegnato a mano nell’84, resterà nel cuore per sempre. Guardai la lancetta dell’orologio che girava senza sosta e pensai: Chiamiamola Time, è un nome facile, lo ricorderanno tutti. Dopo 32 anni, fatti e risultati continuano a darmi ragione sistematicamente”.
La Time tramonterà con te o un giorno passerai il testimone a tuo figlio Lorenzo?
“Non lo so, quando sarà il momento giusto deciderà lui. Purtroppo l’ho visto crescere maniera molto defilata, non sono stato poi così presente nelle sue giornate. Oggi mi rivedo in tante sue espressioni e passioni, quelle musicali su tutte. E il tempo perso con lui me lo sto riprendendo alla grande”.
Testo tratto da Week / Ender
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