“Il negozio di dischi come un bar, un luogo in cui ritrovarsi tra amici. Questo è stato per anni il mio Centro Dischi”. E questo sembra ancora oggi durante certi pomeriggi di chiacchierate interminabili. Il posto prediletto da Domenico Tamburrino resta chiaramente la sua enorme console, circondata da scaffali immensi, pieni di vinili e di ricordi. E’ tra queste mura che continua a dare consigli, a scavare nella storia dei dischi, a sfornare gli aneddoti più interessanti. Chirurgo della puntina, dj da sempre, è un irriducibile degli anni ‘80. Il boom di Centro Dischi, che gestisce assieme alla moglie Anastasia a Francavilla Fontana (Br), avviene però tra gli anni ’90 e i primi 2000, quando si trasforma in una specie di mecca per i dj di mezza Puglia. Oggi resta il negozio di dischi più importante tra i pochi che resistono in zona. “Quando ho aperto, nel 1992, nella mia città c’erano già 3 negozi di dischi. Mi chiedo che fine abbiano fatto, visto che da me la musica si vende ancora”.
Può essere che tu sia stato davvero molto bravo?
“Non spetta a me dirlo. Di certo, conoscenza e sensibilità musicale restano basilari in una professione come questa. In troppi casi, sono mancate. Penso a quando aprire un negozio di dischi era diventata una moda, perché i cd si vendevano da soli. La crisi ha ridotto in brandelli le illusioni di tanti negozianti, evidentemente incapaci di affrontare una situazione che si è trasformata in maniera radicale nel giro di pochi anni”.
La concorrenza dei centri commerciali resta un problema?
“In parte, sì. Hanno prezzi più bassi, mentre noi siamo costretti a mantenere prezzi standard. Sfioriamo l’assurdo con i cd col prezzo imposto. Noi lo rispettiamo, loro fanno il classico ritocco al ribasso. E’ un po’ una guerra dei poveri”.
Le edicole sono un elemento di disturbo?
“Col trucchetto del cd allegato alla rivista, l’Iva è assolta dall’editore. Tra le nostra mura, il miracolo si ripete con pochi titoli, come le compilation di Hit Mania. Mi chiedo perché a nessuno venga in mente di intervenire sull’Iva dei cd, portandola dal 22%, che è qualcosa di mostruoso, al 4%”.
Se un mestiere diventa di nicchia, il pubblico chiaramente si trasforma.
“Anche durante il periodo d’oro della dance avevamo una fetta di pubblico generalista. La differenza rispetto al passato è che oggi siamo costretti a puntare solo su quella. La cosa positiva è che molti arrivano con le idee più chiare, magari dopo essersi informati su internet. Di rado, oggi, qualcuno mi chiede di essere indirizzato sulla House, salvo poi scoprire, dopo qualche mia proposta, che cercava un disco di David Guetta (ride, ndr)”.
Tua moglie mi raccontava di clienti che, riferendosi al vinile, vi chiedono l’album sul disco gigante. E’ imbarazzante, non trovi?
“La colpa è del digitale. Quando c’era il vinile uno veniva ed acquistava il vinile. Punto”.
Per Neil Young il ritorno del pezzo di plastica è solo una moda.
“Sono d’accordo. Il vinile lo può apprezzare solo che lo ha vissuto. Il ragazzo di 22 anni che mi chiede The Dark Side of the Moon, francamente, mi fa sorridere”.
Vinile o cd v/s digitale per i dj: qual è realmente il discrimine?
“Col vinile so cosa ho nella borsa, con i file ho tutto, soprattutto brani che non conosco. Dunque, ho ben poco. Non credo sia una questione di nostalgia: chi ha il file non sa come suona realmente quel brano. Il problema di oggi è che molti ragazzini che ambiscono a carriere da superstar (quelle con anni di gavetta vera come ad esempio David Guetta) si presentano nei locali con dj set preimpostati dalla durata di un’ora. Dopo quell’ora, non sanno più cosa mettere. Un tempo, per diventare un bravo dj, dovevi iniziare come spalla del resident, ossia suonare prima di lui nel preserata, spesso con la pista vuota”.
Credi che negli ultimi anni ci sia stata una degenerazione nei locali?
“La situazione ha iniziato a deteriorarsi sul finire degli anni ’90, quando iniziarono a farsi largo le organizzazioni che spingevano i loro dj, gente in grado di riempire un determinato numero di tavoli. Da quel momento l’importanza del resident è andata a scemare”.
Tutta colpa dei gruppi?
“Che al posto dei resident abbiano imposto i loro dj mi sembra un fatto”.
Poi?
“Un’altra botta l’hanno data i discopub. Passati di moda, il lavoro di demolizione lo hanno completato i bar, col ragazzino a mettere musica gratis, gente senza né cultura né esperienza musicale. Non me la prendo con loro ma con li chiama. Con i gestori”.
Un’altra categoria alla riscossa è quella dei dj pr su Facebook.
“Passano le giornate su Facebook a dire che stanno suonando col Bob Sinclar di turno, quando con la serata, spesso, c’entrano zero. Si tratta di gente in cerca visibilità, che ha il solo pallino dell’immagine, per tanti una vera ossessione nell’epoca dei social”.
Finirà?
“Finirà quando chiuderanno Facebook (ride, ndr). E comunque, da uno che fa il dj per hobby e passa le sue giornate su social non mi aspetto nulla. Per i motivi che ti ho spiegato, ci ritroviamo con gente senza talento, senza professionalità, senza sensibilità. Gente che fa fatica ad organizzare addirittura la scaletta di un compleanno”.
“Portare la discoteca nel negozio è stato per certi versi un errore”, mi hai confidato tempo fa.
“Credo di aver perso un sacco di soldi, meglio non pensarci (sorride, ndr). Sono sempre stato dalla parte del cliente. Conoscendolo, essendogli spesso amico, non me la sono mai sentita di dargli disco House per uno Techno. O viceversa”.
Col risultato che un vinile meno bello non lo vendevi facilmente.
“Diciamo che vendevo 50 copie del Robert Miles di turno e 5 dei mille cloni in circolazione. Ho usato la parola errore, vero, ma l’aver consigliato, l’essere sempre stato più di un semplice negoziante, è una cosa che mi riempie di orgoglio ancora oggi”.
I 12″ che hai venduto di più?
“Think About The Way degli Ice Mc e Bla Bla Bla di Gigi D’Agostino sul versante dance; Seven Days & One Week dei BBE su quello trance; sulla house se la giocano Sex Bomb di Tom Jones & Mousse T e Pasilda degli Afro Medusa”.
Albertino faceva il bello e il cattivo tempo di tanti progetti.
“Quello che diceva lui era legge”.
Da negoziante ne avrai tratto giovamento.
“Anche se i futuri riempipista erano già noti già prima. Etichette e distribuzioni spingevano determinati titoli, che io avevo da subito sugli scaffali. Poi, certo, il momento topico coincideva con l’inserimento nella mitica pagellina. Da quel momento le vendite lievitavano in maniera sensibile”.
Quali altri network, oltre a Radio Deejay, facevano vendere?
“Anche classifiche come Los Cuarenta o Suburbia, in onda su Rin, divennero dei punti di riferimento importanti. Nei primi anni 2000, questo network finì col diventare una novità agli occhi di molti, anche se in realtà esisteva già da tempo”.
Divenne più forte perché qualcun altro sbagliava?
“Ci fu più che altro un periodo in cui usciva musica brutta, dai contenuti imbarazzanti: mi riferisco all’ondata di dischi in italiano. Tutti, in realtà, accusarono il colpo. C’era una ricerca spasmodica della mosca bianca, del disco bello che diventava praticamente una rarità. Uscivano pochi vinili, se ne vendevano ancora meno, la maggior parte li rimandavo indietro. Il periodo a cui mi riferisco va dal 2003 al 2004. Qualcosa iniziò a cambiare dal 2005 grazie a licenze prestigiose. Penso alla d:vision con Martin Solveig, Bob Sinclar, Soul Central e Deep Dish o alla Rise con Blaze e Inaya Day. Quell’ondata di dischi orribili di cui ti parlavo prima aveva comunque azzerato la presenza dei produttori italiani nei circuiti importanti. Trend che ancora oggi, ahimè, continua”.
Quel periodo concise con l’esplosione delle compilation non mixate.
“Che da lì a breve avrebbero mandato in pensione i 12”“.
Furono una buona idea quei cd?
“Sì e no. Era comunque il pubblico a volerli”.
Hanno ancora un senso?
“Per me, sì. A patto che qualche chicca arrivi prima sul cd fisico e non sempre sul solito Beatport”.
Ma in mezzo a 12 titoli quella chicca non si perde alla fine?
“Direi di no, anzi viene valorizzata. Per quale motivo chi acquista i dischi su supporto fisico deve aspettare 3 mesi prima di trovare sulle raccolte unmixed il pezzo che cerca? Se fai uscire il tuo singolo prima su cd e poi in digitale non è che non lo vendi, anzi. Il problema è che spesso (sempre) si preferisce partire con l’autopromozione, ossia con l’autobuy, perché c’è la smania di dover condividere il risultato su Facebook. Chiaramente, seguendo la mia ottica, la licenza del pezzo non la dai alla prima etichetta che capita, ma punti ad uscire su raccolte prestigiose, realizzate con criterio”.
Che ormai si contano sulle dita di una mano.
“Basterebbe guardare al lavoro che svolgevano fino a pochi anni fa etichette come Purple, Defected, Azuli. Per restare in Italia, una distribuzione che ha sempre lavorato bene è stata la Global Net: spesso con le sue raccolte unmixed anticipava tempi e generi. Vendevo molte più Dj Set che Dj Selection, sai?”.
Alcune di queste sono ricollegabili a filoni musicali esplosi e implosi nel giro di pochi anni.
“Se di mode si trattava, sono state comunque mode credibili. Durante un preserata, un momento della festa che adoro, pezzi come The Light di Michelle Weeks o Born Again del nostro Ricky L funzionano ancora alla grande”.
Anche certa dance di oggi sembra perfetta per un preserata.
“Se ti riferisci a certe velocità e a certi suoni, le emozioni che provo ascoltando Faded di Alan Walker sono vicine allo zero, se comparate, per dire, a una The Night di Valerie Dore (sorride, ndr)”.
Sugli anni ‘80 non sarai troppo di parte?
“Si vanno ad esasperare suoni e frequenze per mettere in risalto qualcosa che spesso non c’e. Quel qualcosa fa rima con emozione, cuore, anima. Un tempo con una tastiera e una batteria elettronica dovevi inventarti tutto. Oggi basta un portatile. Ma, a conti fatti, non so se sia stato qualcosa di salutare per la musica. Se per assurdo si tornasse a stampare la dance su vinile, ci sarebbe una pulizia che nemmeno immagini”.
Dove cerchi le emozioni di un tempo?
“Seguo con interesse la Nu Disco. Mi piacciono Tensnake, Purple Disco Machine, Julio Bashmore. Negli anni ‘80 i bpm erano bassi, ma si ballava. Nella commerciale di oggi un po’ si avanti, un po’ si torna indietro: c’è confusione. Dischi del genere non solo sono invendibili, ma spesso anche imballabili. Personalmente, non mi aspetto più niente dalla dance. Tutto quello che si doveva fare è stato fatto. Comunque avrei io una domanda da farti, visto che mi dai del nostalgico”.
Prego.
“Perché oggi sono costretto a realizzare la mia versione di un successo come Faded per proporlo in un locale o aspettare i remix del Tiesto di turno? Questi pezzi saranno pure bellissimi, ma restano là, nelle classifiche, nelle programmazioni radiofoniche. Se un pezzo non lo posso suonare in discoteca perché in realtà non è da discoteca, da dj, come faccio a capire se quel brano sia in grado di emozionare me e chi è in pista?”.
Chiudiamo con con una curiosità: da piccolo non sognavi di aprire un negozio di dischi.
“Sognavo di entrare nell’arma”.
Addirittura.
“Sono un tipo impulsivo, ho fatto un po’ di tutto: il paracadutista, l’istruttore di box francese, l’imbianchino. Il treno dell’arma è passato una volta soltanto, nel 1985. Ero a Livorno per una visita in Guardia di Finanza e dovevo scegliere se restare lì o chiedere la licenza per tornare a casa. Scelsi la licenza”.
31 gennaio 1997, inaugurazione della sede attuale. Che ricordo conservi di quei tempi?
“L’atmosfera era ogni giorno elettrica, l’interesse dietro ad ogni singolo vinile smisurato. La gente aspettava dietro la porta per avere la prima copia o comprava i vinili dopo un solo ascolto, mentre li testavo in console. Si fidava. Anche se tante cose sono cambiate, io e mia moglie Anastasia svolgiamo questo lavoro con lo stesso amore e con la stessa energia di quegli anni. Consideriamo i nostri clienti parte di un’unica famiglia. E la musica come il pilastro di ogni piccola o grande amicizia”.
di Leonardo Filomeno – 07/06/2016